L’America degli anni Cinquanta e la difficoltà di essere donna e madre
Portavoce universale della contraddizione di essere donna e poeta, della difficoltà di conciliare l’essere madre e moglie con una propria autonomia intellettuale, Sylvia Plath è entrata nella storia della letteratura come una delle prime grandi autrici in grado di esprimere che cosa abbia significato essere relegata in secondo piano per colpa del proprio sesso. Oggi è ancora un punto di riferimento per tutte le donne che vogliono decidere da sole cosa fare della propria vita. Per capire bene ciò che ancora oggi ci lega a Sylvia Plath bisogna leggere i suoi scritti.
Le sue parole - sfaccettate, precise come frecce -, arrivano e colpiscono, scuotendo la nostra coscienza e rivelandoci le nostre frustrazioni. Ad esempio, nel romanzo La campana di vetro, parla di una brillante studentessa di provincia vincitrice del soggiorno offerto da una rivista di moda: ma a New York Esther si sente «come un cavallo da corsa in un mondo senza piste». Intorno a lei, l’America spietata, borghese e maccartista degli anni Cinquanta: una vera e propria campana di vetro che nel proteggerla le toglie a poco a poco l’aria. L’alternativa sarà abbandonarsi al fascino soave della morte o lasciarsi invadere la mente dalle onde azzurre dell’elettroshock.
Ma le poesie sono il luogo in cui troviamo la summa della sua espressività. A sessant’anni dalla tragica scomparsa, le poesie di Sylvia Plath, nella loro febbrile intensità, appaiono sempre più come un documento in cui il dolore trova nella forza della parola la più coinvolgente espressione. Nella versione italiana di Giovanni Giudici i versi della poetessa conservano intera la sua impronta, il tono, l’emozione interna. Ci troviamo di fronte a una poesia confessionale, certo, ma che di molto oltrepassa i limiti di un genere per divenire l’emblema di un disagio esistenziale, di una condizione femminile profondamente turbata, fino al risalto drammatico che ne portò l’autrice sull’orlo dell’abisso e poi all’annientamento.